























parole&parole, mai senza musica
scrittore che fa musica, musicista che muove parole
























ma perché non aver eliminato una cosa stupida e di fatto inutilizzata, ma oggettivamente foriera di ovvii e prevedibili problemi? e senza pensare a chi ne sarebbe stato coinvolto! ancora: scusa! (lui sa che è a lui che chiedo scusa)
coglionaggine? certamente! al cubo!
ma anche un messaggio a circuito chiuso: senti fanciullo, prendi la tua strada e non rompere gli zebedei! sei un artista o un ragioniere? coi numeri non c’hai mai saputo fare, con le connessioni logiche vai bene, con la disciplina del metodo puoi essere un drago, ma per fare certi lavori non basta la capacità, ci vuole anche l’indole, e tu non puoi ancora far finta di essere altro che un artista… e gli artisti della rispettabilità borghese fanno aquiloni.
la rimodulazione del rapporto col mondo.
vi fermate alla coglionaggine? fate bene, ve ne ho dato ragioni evidenti, ne avete il diritto, e così io so con chi ho a che fare, e siamo tutti contenti. viva la chiarezza!
ma se andate oltre, e se sapete guardare a tutto, siete meravigliosi, e anche sapere chi è meraviglioso e non banale è un regalo impagabile per un artista.
e per un uomo che è anche un artista.
In un pezzo di vita precedente mi sono dedicato al disegno e ho fatto dei quadri in tecnica mista, da completo autodidatta, sperimentando. Qui i lavori principali.
























É stata una quindicina d’anni, tra il 1990 e il 2005 circa. Era un canale espressivo che mi era stato chiuso da adolescente, che ho voluto riaprire da adulto, e che é andato esaurendosi quando la scrittura ha preso gradatamente il sopravvento, sempre al fianco della musica al pianoforte. Cose che vanno per la loro strada. Non ho nostalgia del disegno, perché ho usato le parole, la narrazione per descrivere e costruire figure, storie, emozioni, e mi sono trovato a farlo meglio, con maggiore profonditá e complessitá, oltre che con maggiore efficacia.
Non sono certamente lavori scontati. Le composizioni astratte precedono i nudi, cui mi sono accostato con circospezione, ma erano i nudi la mia meta fin dall’inizio.
Nudi complessi, erotismi spinti geometrizzati, come a esprimere veritá molto frequenti (ma oscurate dal senso del peccato che ci attanaglia anche dichiarandoci laici e liberi fino al midollo) geometrizzate alla ricerca di una quadratura aurea.
So esattamente di cosa parlo, a partire dalla mia tesi di laurea sulle proporzioni pitagorico-platoniche nel rinascimento.
Nella vita, le quadrature sono più difficili, la merda triviale invade in un attimo.
Un insegnante scrive nelle menti e nei cuori degli alunni, e non sa mai se e quando ci saranno frutti che per lo più non coglierà. Ma continua a farlo. Una forma di pazzia? o una forma di narcisismo? o una forma di amore?
Un artista da palcoscenico (musicista, attore, danzatore…) scrive nel nulla, lascia vibrazioni e segni nell’aria che svaniscono nell’istante. Ne restano le emozioni: di un istante, di una notte, di una vita. Niente di realistico. Tutto di imprendibile. L’esperienza dell’impermanenza del bello e della vita.
Uno scrittore (di prosa, di poesia, di teatro, di saggi, di musica, di tutto ciò che è nero su bianco) scrive perchè arrivi a menti e cuori, perchè viva un istante nell’aria, perchè entri nelle vite degli altri. Quel che scrive puó esser letto in infiniti tempi e luoghi, è una traccia, un’orma concreta, un oggetto, inerte in se’, ma se incontra lettori e interpreti si attiva nella sua dimensione iperurania.
Ecco.
Insegno da 45 anni.
Suono in pubblico da 45 anni.
Leggo in pubblico da 12 anni.
Sono ormai 30 anni, ma potrei dire 40, che lascio parole nero su bianco, e mi appresto a lasciare altro tipo di nero su bianco.
Il triviale del quotidiano e delle debolezze è come la cacca di un lattante, inevitabile nella sua crescita, ma da buttare e ripulire, sola e pura zavorra, di cui liberarsi per volare in alto. Chi della bellezza della crescita vede solo gli escrementi, evidentemente ha sensibilità solo per quelli.
Tracce, orme concrete di un passaggio sensibile al bello.
Quello che ho cercato é stato un pianoforte in cui non esista piú il concetto stesso di “accompagnamento”
Da quando lo stile galante ha inventato il basso albertino che accompagna una melodia, non necessariamente eseguita da un altro strumento melodico, ma eseguita dalla mano destra del pianista stesso (nel XVIII secolo galante e proto-classico le sonate erano per pianoforte con achompagnamento di violino, che raddoppiava i temi della mano destra del pianoforte) il pianoforte ha impregnato la sua identità specifica proprio del saper accompagnare.
Questo ha generato uno standard per cui gli altri strumentisti, anche quando molto colti e avveduti, che suonino uno strumento melodico, vedono nel pianoforte un sostegno e un supporto discreto, magari anche un iniettore di energia propulsiva, ma che sostanzialmente debba stare al suo posto a rendersi utile senza far perder tempo a chi, loro, i melodici, davvero fanno la musica. Non parliamo della dinamica che si instaura poi coi cantanti, che eleva tutto questo all’ennesima potenza… ma i violini, che tanto al canto sono debitori, non sono poi secondi.
Questa dinamica è stata introiettata dal grande pianismo solista romantico, che ha sempre inseguito la possibilità di cantare, e, nei milioni di note con cui ha riempito le sue evoluzioni di scrittura e di virtuosismo, è sempre peró il canto che deve stagliarsi su tutto, e commuovere.
Non era così in epoca barocca, nè nel novecento storico, e a tratti anche in certi momenti del grande arco romantico.
Ho voluto quindi andare a recuperare modi di scrittura per il pianoforte che, eliminando completamente il ruolo di accompagnamento, mettesero in atto quella che per me é la vera anima del mio strumento, cosí grande e solido e insieme infinitamente colorato e liquido: la capacitá di strutturazione architettonica attraverso contrappunto armonia ritmo; la capacitá di evanescenza caleidoscopica del suono; la capacitá di trasformare il movimento in flusso estenunante o inarrestabile.
Il ruolo declamatorio e cantante puó assolutamente essere assolto dal pianoforte, ma ho scelto che fosse preso di petto in modo tragicamente assoluto (questo accade nel terzo movimento di questa suite) oppure che emergesse come inevitabile esito di un percorso strutturale che trova la sua meta in un estremo gesto melodico. Il canto, ultimo anelito del pianoforte ma a lui scientificamente negato (visto che, a rigore, il suono appena prodotto inizia subito il suo decadimento, e legare due note per farne melodia é operazione che ha a che fare con l’intenzione ma non con la realtá acustica, e quindi con una dimensione che potremmo dire di interazione “magica” o di ipnosi personale e collettiva) resta il limite e il desiderio, e infine il muro contro cui infrangersi.
Ma chi, amando la musica, non desidera cantare?
Riferimenti:
Couperin, Beethoven, Bartók, Liszt, Strawinsky, Berg, Chopin.
Un artista che pensa in piccolo non è davvero un artista. Essere artista vuol dire rompere le dimensioni correnti, inventare orizzonti nuovi e aperti. La grandezza è sempre la dimensione dell’opera d’arte, la bellezza non sopporta argini, altrimenti è altro, e somiglia pericolosamente alla decorazione o alla pornografia, a volte intrecciate con buona educazione da persone colte.
Dopo aver detto in pubblico una cosa che so da quando ho pubblicato “Waldemar”, cioè che non scriveró più romanzi, perchè non ho altre cose da dire nella forma del romanzo, sono in un turbine di ideazione per altre forme creative, e non me lo aspettavo.
Un artista non smette di essere artista se non quando muore. Cerca i suoi linguaggi per tutta la sua vita.
Non mi aspettavo che la svolta venisse dal parlarne in pubblico. Una prova per me determinante del significato del rapporto tra la solitudine del lavoro artistico e la sua pubbicazione. L’artista non puó essere e restare solo: ha sostanzialmente esistenza, cioè la sostanza del suo vivere diventa reale, solo nel porre la sua opera in confronto con l’altro.


Inutile schermarsi: gli artisti vogliono il riconoscimento del pubblico, e lo vogliono in modo generico.
Se persino Thomas Mann ne scrive all’amico Hermann Hesse, chi sono io per fare il superiore?
Eppure, quel che conta è quell’innocenza e quel bastarsi.
Se fosse vero, non esisterebbe più insicurezza.
Come in tutte le cose umane, il bastarsi è solo presunzione.
L’amica geniale.
Tra i tanti pregi di questa serie, ne sottolineo uno che a me personalmente sta molto a cuore: Napoli raccontata nella durezza delle relazioni reali, senza nulla della retorica del tanto celebrato “calore”, che poi si estende, dalla capitale alle province del Regno Borbonico, a tutto il meridione.
Quel cosiddetto “calore” di cui tanto ci si bea è una favoletta vera quanto la Befana. Non c’è. Non esiste. Ho trovato molto più calore reale in situazioni e luoghi generalmente tacciati di durezza e freddezza.
Trovo in questo benefico e veritiero tratto della narrazione di “L’amica geniale” una diretta assonanza con le narrazioni che ne fa Sorrentino nei suoi film e nei suoi libri.
Poi, davvero non capisco la fascinazione di cui è capace Nino Sarratore, e prima di lui suo padre, sulle donne. Viene facile, e sdrammatizzante, la battuta “le donne non capiscono nulla degli uomini”, ma credo che la mia difficoltà stia in un livello più profondo: le donne, vittime millenarie di patriarcato, hanno sviluppato le loro armi di sopravvivenza e di potere nella manipolazione emotiva, e quindi poi anche nelle relazioni sessuali ed emotive ne pagano il contrappasso e sono facilmente vittime a loro volta dei manipolatori, mentre l’amore tra uomini (con questo escludo la relazione tra un uomo e chi, nato uomo, peró si identifica come donna, ricreando la dinamica standard uomo-donna) e l’amore tra donne si gioca su altri piani. La fascinazione tra uomini e la fascinazione tra donne strutturalmente non hanno a che fare con giochi manipolatori, perchè si pongono al di fuori del sistema patriarcale, che infatti le teme più di ogni cosa, anche più della libertà della donna.
Parlando delle attrici, le trovo meravigliose, intense, dense, tutte quelle che si sono avvicendate nei ruoli di Lila e Lenù, e tutte le altre. Gli attori anche sono tutti molto bravi, ma stanno tutti un gradino piú in basso delle colleghe. Sará anche questo un effetto della narrazione. Il mondo maschile ne esce a pezzi, e forse é giusto cosí. O forse é un necessario segno dei tempi, in attesa di una prossima evoluzione.
Se qualcosa resterà tra i vivi, sarà quel che sta scritto nero su bianco, stampato. Tutto il resto avrà bisogno di troppe condizioni per restare. Del resto, alla fine, resterà quel che se ne ne sarà scritto e stampato nero su bianco. L’impermanenza del suono nell’aria, del gesto teatrale, della luce sullo schermo potranno davvero sopravvivere solo nella testimonianza del nero su bianco.
La binarietà del reale costringe la terza e le altre dimensioni. Nero su bianco.
E il massimo possibile dell’evocazione che libera le menti. Dal nero su bianco, apparente prigione, si aprono le ali della vera libertà della mente.
A Morbegno il 1°dicembre, sollecitato da Jorge, ho detto in pubblico che non scriveró un terzo romanzo, perchè quello che avevo da dire attraverso la forma del romanzo l’ho già detto. Ho aggiunto che nonostante che tra “Lavoce di Mignon” e “Waldemar” siano passati 25 anni, in realtà è come se fossero un unico romanzo in due parti distinte.
In realtà, c’è un terzo scritto in prosa, racconto lungo o romanzo breve, o nessuna delle due cose, perchè in realtà è un avvitamento in una sperimentazione narrativa per trasformare in bellezza (spero) un grumo emotivo specifico e forte. Parlo di “Carnevale, ovvero l’arte della fuga”, pubblicato nel volumetto che raccoglie scritti brevi ed eterogenei sotto il titolo “Il periodo deve essere breve”.
Una mia autocensura lo ha sempre tenuto nell’ombra. So perchè. Forse è il momento di eliminare questa autocensura.


Si, compare, il volumetto, in questa composizione di copertine dei miei lavori. Ma il titolo di questo lavoro no, è celato. Pochissimi lo conoscono. Non so, forse lo rilavoreró, o forse no. Comunque: esiste, e con quello contraddico quel che ho dichiarato a Morbegno, cioè che non sento l’esigenza di scrivere un terzo romanzo e di completare una mia trilogia.
La realtà è che la mia trilogia già esiste. Nascosta.