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INTERVISTA – SONATA in memoria di Ignazio Silone
Pescara e il teatro che non ci sarà mai
Pescara è una città che ha avuto l’occasione di farsi un vero teatro, ma la solita miopia e il solito bailamme localistico hanno preferito fare il ponte del mare, contenti delll’immagine da cartolina e non con il disegno di dare un vero luogo identitario ad alto livello, ma mi viene il sospetto che ai pescaresi vada benissimo la cartolina e che il teatro se lo meriterebbe una vera città, che non è Pescara.
In attesa del Natale, un sermone del Pastore Emanuele Fiume

Domenica 14 dicembre 2025, III di Avvento, festa dell’albero.
Matteo 18,1-6
In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù, dicendo: «Chi è dunque il più grande nel regno dei cieli?» Ed egli, chiamato a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità vi dico: se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Chi pertanto si farà piccolo come questo bambino, sarà lui il più grande nel regno dei cieli. E chiunque riceve un bambino come questo nel nome mio, riceve me. Ma chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono in me, meglio per lui sarebbe che gli fosse appesa al collo una macina da mulino e fosse gettato in fondo al mare.
Ecco l’Avvento… i discepoli che si avventano su Gesù. Non come si sono avvicinati gli angeli, i Magi e i pastori, ma come ci avviciniamo noi, anche quest’anno, perché anche noi ci avviciniamo – o ci avventiamo – con la stessa noiosa e pestifera domanda dei discepoli: “Chi è il più grande?” Chi è più importante, chi è maggiore? Io o mio fratello? Io o lui? Io o la consuocera? Una persona come me si merita tanto in questi giorni di festa… Perché chi è più grande deve avere di più e vuole avere di più… Eh, questo non cambia. Non è l’Avvento ad essere sempre uguale, non sono il culto o il pranzo di Natale che non cambiano. Questo non cambia mai! Non cambia mai la nostra finta domanda di discepoli a Gesù: “Chi è il più grande?” E la risposta, la sappiamo tutti, siamo tutti d’accordo e la sanno anche gli asini? Chi è il più grande? IO! A questo avvento del peccato dei discepoli, del credersi chissà chi, del voler essere riconosciuti e onorati che è il classico peccato che si fa in chiesa, che è il peccato che ha generato il potere papale, il peccato che nasce e cresce qui… all’avvento secondo i discepoli con la loro domanda presuntuosa, Gesù risponde con mezzo presepe vivente del vero Natale: e allora cambia tutto, paf, mette lì in mezzo, al posto d’onore, un bambino. Ecco il vero presepe del vero Natale: tutti intorno al bambino!
Se non cambiate… dice Gesù. Perché a Natale cambia tutto. A Natale Dio Onnipotente è cambiato, perché è diventato bambino. Noi possiamo cambiare e diventare bambini per entrare nel suo regno. Se non guardiamo il mondo all’altezza di bambino, non vediamo Gesù e quindi non vediamo la porta del regno dei cieli.
Primo: Gesù mette il bambino in mezzo perché Dio stesso è diventato bambino. Non “uomo”, Gesù non è venuto al mondo già con la barba e i capelli lunghi, Gesù è nato esattamente come siamo nati tutti noi e tutti i nostri figli. E i bambini all’epoca non contavano nulla, scorrazzavano nei villaggi fino a dieci anni, poi imparavano a malapena a leggere (ma spesso era meno fatica mandarla a memoria), a leggere il primo capitolo della Bibbia, così facevano la loro Confermazione e restavano con questo livello di istruzione tutta la vita. Restavano bambini. Per questo il lettore della sinagoga e i farisei e gli scribi erano tanto considerati, perché sapevano leggere e interpretare le Scritture, cioè la legge. L’avvocato per tutti. Il bambino era l’umile, il minimo per eccellenza, tanto che in alcuni dialetti sono compresi in un indistinto plurale collettivo: “li meinà” in occitano, “la mularìa” in triestino, “ na’ pipinara” in romanesco. Il minimo, proprio quello in cui alla fine dei tempi, nel giorno del giudizio, Gesù Cristo riconoscerà te persino anche se tu non hai riconosciuto lui. Matteo 25: Signore, quando mai ti abbiamo visto e abbiamo fatto? In verità, quello che avete fatto a questi minimi, l’avete fatto a me. E questi se ne andranno a vita eterna” Questi, che non si sono interessati a Gesù in persona, ma ai minimi nei quali e solo nei quali c’era Gesù, che li ha acchiappati. Questa è l’incarnazione, da prima del concepimento quando Maria canta il Magnificat, e canta il rovesciamento, il sottosopra non sociale, ma generale, globale, fino al giorno del giudizio, in cui il criterio della tua salvezza, il terreno in cui Gesù ti ha preso non è il tuo essere superbo coi superbi, massimo coi massimi (e men che meno l’essere superbo con gli umili), ma il tuo saper essere minimo coi minimi perché Gesù viene al mondo minimo, neonato, bisognoso e dipendente di tutto come siamo stati noi e come sono stati i nostri figli. Gesù è nella mangiatoia, e se non abbassi umilmente lo sguardo, non lo vedrai mai.
Secondo: se Dio Onnipotente si è rivelato, si è incarnato, si è fatto bambino in Cristo, in Cristo possiamo cambiare e diventare bambini anche noi. Non restare bambini, cioè non essere infantili. La persona infantile vede il mondo in bianco e nero, giusto e sbagliato, buono e cattivo… a parte le sue cose che vede tutte belle colorate, a partire dal contenuto del proprio portafogli. Perché l’avaro è un infantile, un grande infantile, un grande irrisolto. Allora, non è questo, non restare
bambini, ma non è nemmeno tornare bambini, cioè rimbambire, ridiventare capricciosi, fissati, abitudinari, mentalmente pigri, egoisti come eravamo da bambini e siamo stati corretti dai nostri genitori o dalle sberle che abbiamo preso nella vita. No, non dobbiamo tornare bambini. Dobbiamo diventare bambini. Siamo vecchi e dobbiamo diventare bambini. E come? Qui si possono dire tante cose, sul fondamento dell’essere minimi, non importanti, dipendenti. Non innocenti e buoni, bravi, non è questo. Il bambino è il minimo, il non interpellato, il non importante, all’epoca il non cercato. Su questo si possono innestare delle considerazioni di psicologia infantile: il bambino è diretto, sa chiedere, sa ricevere… ma c’è secondo me qualcos’altro. Il mese scorso abbiamo portato Micol al cinema, per la prima volta, con tre suoi compagni e le famiglie, e dopo il cinema abbiamo cenato tutti insieme, poi abbiamo preso l’autobus e siamo tornati a casa. E da quando siamo andati via Micol non ha fatto altro che piangere e disperarsi. Perché? E lei ce l’ha detto: “Perché è finito”. Ecco, più di noi, più di me, i bambini sanno che la gioia non deve passare. La gioia deve restare. Sempre. Non è dovuta, non è scontata, ma quando c’è, non deve finire, deve durare per sempre. Ed è giusto così! Noi insegniamo ai bambini a non piangere quando una grande gioia finisce, mentre dovremo imparare da loro a piangere quando una grande gioia finisce e a desiderare una gioia ancora più grande, la gioia del regno dei cieli che non passa. Questo è quanto il sottoscritto, addottorato in teologia all’università di Zurigo magna cum laude, vincitore della Van Halsema Fellowship del Calvin Theological Seminary, autore di numerose pubblicazioni, ha imparato dalla propria figlia di quattro anni sul regno dei cieli. Ho imparato che cosa significa vivere ricevendo una gioia e, avendola sperimentata, credere e voler credere che non finisca, lottare per una gioia che non finisca.
Infine, che cosa non fare. Non scandalizzare i piccoli, non umiliarli, non spazzarli via… perché a quel punto sarai spazzato via tu. Non esporli al male. Non rassegnarli a un ambiente in cui la sopraffazione è abituale e la guerra è normale. Non trascurarli, non renderteli invisibili, non perderli, perché lo sguardo di un bambino deluso è micidiale, è mortale. Lo sguardo di un bambino veramente e profondamente deluso ti uccide. “Voltati, Eugenio” è un film di Luigi Comencini, un regista credente, convertito valdese, che sapeva dire tutto con i volti dei bambini. Il film parla di una giovane coppia sessantottina figlia dei fiori con un figlio, Eugenio, di circa dieci anni. La coppia scoppia, con varie vicende, il ragazzino viene trattato da pacco postale, e alla fine, mentre parlano di metterlo in un collegio, i “grandi” si commuovono teneramente per un vitellino appena nato – di solito le persone molto cattive sono anche molto sentimentali – ed Eugenio li guarda con due occhi che parlano e che dicono che il vero abbandonato non è lui, ma sono loro. Sono “i grandi” che hanno abbandonato la realtà, la responsabilità, l’umanità. Che nessuno di noi sia guardato da un bambino con quello sguardo, con quegli occhi, perché sarebbe meglio attaccarsi una pietra al collo e buttarsi nel Tevere. Un bambino vuole essere ascoltato; il Signore Gesù Cristo vuole essere ascoltato. Se non lo fai, approfittando del fatto che nel primo caso sei “grande”, nel secondo caso ti credi grande, questo sarà la tua rovina.
Eccoci ora al mezzo presepe vivente di Capernaum (e dico mezzo perché ci sono solo il bambino che fa Gesù e i discepoli che fanno l’asino), al primo presepe fatto da Gesù stesso, che mette un bambino al centro della scena e che dice che chi si farà piccolo come questo bambino, sarà lui il più grande nel regno dei cieli. E chiunque riceve un bambino come questo nel nome di Gesù, riceve Gesù stesso. Ecco un presepe biblico, fatto da Gesù in persona, 1193 anni prima del presepe di Greccio, il primo presepe, fatto da Francesco d’Assisi in modo da rendere ogni abitazione, ogni stalla, ogni frazione di paese degna di contemplare la nascita di Gesù, e con il solo Gesù al centro, addirittura senza Maria e Giuseppe, come vediamo dall’affresco di Giotto del presepe francescano… mentre in tutta Europa si predicava l’indulgenza plenaria per chi andava a combattere in Terrasanta. Ma perché vai ad ammazzare e a farti ammazzare per i luoghi santi di Gesù se Gesù nato per te può essere contemplato anche nella capanna del povero contadino? Non trovi Gesù nella gloria della guerra, ma nell’umiltà di qualsiasi abitazione. Questo era il messaggio del presepe di Greccio. E ora, davanti all’annuncio del Vangelo in cui il bambino di Capernaum è al centro, rischiamo di annunciarlo e di ascoltarlo con il posto d’onore vuoto. È come se leggessimo la ricetta davanti al piatto vuoto. Perché non ci sono i bambini al culto? “Perché non capiscono tutto…” Risposta falsa e presuntuosa. Perché vi assicuro che neanch’io capisco tutto, neanch’io capisco tutta la Bibbia e difatti continuo a studiare teologia da trentacinque anni. Se tu capisci tutto, prego! Ti cedo subito il pulpito che mi avete affidato. Se qui c’è qualcuno che ha capito tutto, penderemo dalle sue labbra! “Una volta c’era la Scuola domenicale…” e teneva i bambini lontani dal culto. A parte la festa dell’albero, Natale e Pasqua, per molti protestanti il primo culto cui hanno partecipato era quello della loro Confermazione. E parallelamente, oggi un’overdose di impegni formativi e sportivi tiene i bambini lontani dalla vita della chiesa, e noi tentiamo faticosamente e inutilmente di raggiungerli, ma sempre con la spocchia di pensare che loro hanno bisogno di noi, mentre il Vangelo di oggi ci dice che noi abbiamo un reale, un vero, un disperato bisogno di loro per imparare a credere. Dov’è il bambino come il quale dobbiamo necessariamente diventare per entrare nel regno dei cieli? Dov’è il bambino come il quale dobbiamo farci piccoli, per essere grandi nel regno dei cieli? Dov’è il bambino che riceviamo nel nome di Gesù, e con lui riceviamo Gesù stesso? Dov’è il bambino che piange quando una bella cosa, che dà gioia, finisce, e mi insegna a piangere con lui e a cercare un regno in cui la gioia non finisce mai? Dov’è il bambino che ci insegna che Dio si fa umano e viene al mondo bambino e che se togliamo di mezzo il bambino, togliamo di mezzo la realtà dell’umanità di Dio e che fuori dalla realtà l’umanità di Dio diventa irreale, diventa teoria, diventa ideologia, diventa etica… e quindi il Vangelo diventa legge, il “Dio ha fatto perché tu possa” diventa “Tu devi perché Dio sia” e a questo punto meglio sparire dalla circolazione e lasciare che altri scoprano quel Vangelo di Dio donatoci incarnato nella nascita di Gesù e da noi irrealizzato, teorizzato, disincarnato, eticizzato, e quindi tradito.
“Se non cambiate…” dice il Signore Gesù Cristo. Possiamo ancora farlo. Possiamo ancora diventare bambini, possiamo ancora esigere che la nostra gioia non finisca, e farlo a pieni polmoni. Possiamo non aspettare che i nostri piccoli diventino “grandi” senza intanto diventare piccoli noi. Possiamo farlo solo perché un Grande più grande di noi l’ha già fatto: Dio onnipotente è nato, è diventato bambino per noi. Allora possiamo veramente farlo. Amen!
INTERVISTA sonata per pianoforte in memoria di Ignazio Silone
INCHIOSTRO
Andrea Comisso è un avvocato e uno scrittore. La sua espressione fiorisce nel racconto breve. L’ho conosciuto 3 anni fa, andando alla presentazione del suo primo libro presso la Libreria Tarantola di Udine. Siamo presto diventati amici. Questo suo ultimo racconto mi ha toccato specialmente. Andrea entra nell’umano, per intero, con violenza e grazia, e interroga ciascuno che lo legga. Dovevo fare qualcosa per queste emozioni, e ho registrato una lettura.
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Inchiostro, di Andrea Comisso.
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Si sta bene qui dentro, con l’aria condizionata.
Mi bacia le guance con slancio. Poggia la borsa sulla sedia, toglie gli occhiali da sole, sfila le infradito. Lascia cadere i jeans.
“Stavolta le cosce” dice.
Si stende sul lettino.
“Vuoi bere qualcosa, Lea?”
“No, grazie. Dopo. Alza un poco la musica!”
Posiziono il led a trenta centimetri, angolo retto. Luce bianca, 5000K
Le cicatrici sono parallele, precise.
“Quando?” chiedo sottovoce, anche se siamo soli.
“Cinque, sei mesi fa” risponde senza guardarmi.
Io ricordo che non c’erano a maggio, invece, e la pelle mi dà ragione: tessuto nuovo, roseo. Consistenza diversa. Queste hanno settimane.
Ma è maggiorenne. Paga in contanti. Firma il consenso.
“Cosa facciamo? Vuoi vedere qualche modello? Invento io?”
“Rami. Come quelli sui polsi, ma che salgono”
Sui polsi ha già i miei rampicanti: sottili, neri, che s’intrecciano sulle vene.
Ma si, era maggio. Mentre disegnavo, pensavo alla fioritura del giardino qui davanti. Faceva caldissimo; era entrata a testa bassa, con le maniche lunghe.
“Voglio coprire” disse. E io avevo disegnato i rami, con cura paterna, senza chiederle niente.
Lei pianse in silenzio, alla fine. Ammirò, disse “grazie” abbracciandomi, e andò via in canottiera, con la camicia raggrumata in borsetta.
Eccoci qui, di nuovo.
Lei distesa, occhi al soffitto. Io che preparo l’armamentario, lavo le mani infilo i guanti, e tento di servire a qualcosa.
“Come va?”, provo.
“Bene”
“Lavoro?”
“Sì”
“Famiglia?”
“Sì”
Non c’è verso. Solo monosillabi, e quel modo di respirare, quando l’ago entra. Come se il dolore la calmasse.
La pelle accoglie l’inchiostro. Seguo le cicatrici, le copro. Una per una. Fioriture che salgono verso l’inguine. Lei non si muove. Respira. Dentro, fuori. Regolare.
“Fa male?”
“No”
Invece so che fa male. Ma, forse, meno delle sue lamette.
In due ore i rami sono perfetti. Tolgo i guanti, mi asciugo la fronte. Non pare che lì sotto ci sia stato uno scempio. Lei si osserva allo specchio, si gira di lato, finge di essere un estraneo che la guardi, e sorride. Ma appena appena.
“È bello” dice. Ma lo dice per farmi piacere, io sento che non gliene frega niente.
“Torna tra qualche giorno, che controlliamo” le raccomando. Anche se non c’è bisogno di controlli. Lo sappiamo tutti e due.
Dondola il capo e produce con la bocca un sorriso sforzato. “Si, passerò”. Mi rassicura, come se soffrissi più io. Ha fretta. Paga. Esce.
Io pulisco gli aghi, butto i guanti, chiudo lo studio, e mi giustifico: starà meglio: adesso può uscire, andare al mare, vivere. Stupido illuso.
.
Sparisce per mesi. Torna in autunno.
Si sfila la maglia. Le braccia sono oscene. Cicatrici fresche, vive. Sotto i rami dei polsi, sopra, ai lati. Ovunque ci fosse pelle libera.
Stavolta non tenta di mentire.
“Ho continuato”
“Lea…”
“Lo so. Ma aiutami, Renzo!”
Ha gli occhi chiari. Le unghie smangiucchiate, e io vorrei portarla via.
“Dovresti parlare con qualcuno”
“Parlo con te”
“Io non sono… Lea: io faccio tatuaggi!”»
“Appunto. Tu copri! Quello che mi serve”
Cosa dico? Che non posso? Che è sbagliato? Ma è adulta. Ha i soldi. Ha firmato. È il mio lavoro.
Disegno altri rami. Più fitti. Lei tiene gli occhi chiusi, ma ogni tanto una lacrima la vedo. Ogni tanto un singulto. Di sollievo? Di dolore? Non so.
Alla fine, ringrazia. Come sempre. Paga. Come sempre.
Io le dico “Torna se hai bisogno”, ma dovrei dire “non voglio vederti più”. Ma glielo dico. E lei annuisce. Sono una brutta persona.
.
Mesi dopo, sto per chiudere. È di nuovo quasi estate. Suona il campanello.
È lei.
“Posso entrare?”
E’ di nuovo troppo caldo per le maniche lunghe. Si siede sul lettino. Ma questa volta è quasi sbruffona, esibizionista. Non parla. Io aspetto.
Si spoglia. Le braccia sono coperte di bende.
“Lea…”
“Sotto i tatuaggi” confessa “Così nessuno vede. Neanche tu”
“Devi andare al pronto soccorso”
“No. Dimmi solo che le coprirai ancora, quando guariranno. Possiamo farlo?”
Non ho parole da dire. Controllo le ferite. Fiori scarlatti sui miei rami secchi. Sangue e inchiostro.
“Non posso più, Lea”
“Perché?”
Perché ti sto aiutando a distruggerti. Perché ogni volta che ti tatuo ti do il permesso di continuare, penso. Ma dico solo “non posso”
Lei annuisce. Si rimette la giacca. Si alza.
“Va bene. Scusa il disturbo. Troverò qualcun altro!”
Esce, e io resto immobile, senza nemmeno tremare, senza niente. Non ho aiutato nessuno, ho solo incassato denaro.
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Non la vedo più. Passano i mesi. Non torna, non chiama.
Ma una mattina leggo il giornale. “Lea Martini, 23 anni. Si è spenta serenamente circondata dall’affetto dei suoi cari. I funerali si terranno…”
Serenamente.
Affetto dei suoi cari.
Circondata.
Balle. Tutte balle.
Adesso sì che mi tremano le mani.
I miei polsi sono pelle vergine. Niente tatuaggi né cicatrici.
Pago il caffè. Esco. Mi rintano in studio.
Poggio l’avanbraccio sinistro sul lettino, lo cospargo di alcool, appoggio l’ago.
Il dolore è netto, concentrato.
Inizio a disegnare un ramo.
Piccolo.
Sottile.
Nero.
Autofiction, ancora…
Se vogliamo parlare un po’ sul serio, mi piace uscire da questo termine così inflazionato, autofiction, per tornare ad un’espressione più fuori moda e ormai decantata: storia romanzata, con la quale si descrive una vicenda con fondamenti documentali e reali che viene narrativamente elaborata a seconda del disegno narrativo e del desiderio del narratore.
Quando, in una vita precedente, studiavo Antico Testamento in Facoltà Valdese, il Professore non si stancava di ripetere, anche con acribia, che nel Vecchio Testamento NON troviamo la storia di Israele, e che tutto ciò che vi viene narrato NON è storico (nè la cattività babilonese, nè quella egiziana, nè il ritorno in Terra Promessa, nè la distruzione del Tempio… figuriamoci poi della storia di Davide e Golia, di quella di Sansone e Dalila, di quella di Sodoma e Gomorra, di quella della moglie di Lot trasformata in statua di sale…)
Tutte le stelle della tv si fanno scrivere da pseudo-abili ghost writers le proprie autobiografie, con fatterelli veri romanzati da chi sa (o millanta di saper) maneggiare la parola scritta meglio di loro.
Il narratore d’arte, chiamiamolo così, che vuole dire delle cose e costruire narrazioni a partire dalle vicende della propria vita deve saperlo fare, e i cercatori di pettegolezzi che spaccano il capello sui riscontri, devono darsi pace: ciò che sia vero o non lo sia non conta NULLA. I parenti stretti e gli amici maligni del narratore possono perdere le loro energie a sottolineare “le cose non sono andate davvero così”, “sta mentendo”, “ma come si permette!”, “ma davvero ha fatto queste cose orrende?”, eccetera, ma non conta nulla, se non per allontanare quei parenti e quelle relazioni e lasciarle ai loro torbidumi.
Ciò che conta è se la narrazione, il romanzo che leggo risponde con efficacia alle domande sulla coesione interna e sui meccanismi narrativi, sulla forma letteraria, al singolare o al plurale, sulla sua capacità di coinvolgimento del lettore per potergli davvero dire qualcosa, sull’avere qualcosa da dire.
Se poi vuoi usare storie di famiglia sapide e piccanti per provare a far quattrini, hai già stabilito cosa sia importante per te.
Ecco, secondo questo misero romanzatore e narratore d’arte che resta letto nei suoi romanzi da una ristretta cerchia di amatori, e che ha ben conosciuto i ricercatori del pettegolezzo, l’ambizione è quella di esser preso come un totale falsario, ma con un senso e una consapevolezza irrinunciabili.
Barry Lyndon

Barry Lyndon lo andai a vedere al cinema appena uscito, e ne rimasi affascinato, soprattutto dalla scelta registica di mettere la telecamera in una posizione fissa come a delimitare un quadro visivo in cui i personaggi vivessero le loro storie e l’azione si animasse. Dopo non molto tempo lessi del Rake’s Progress di Strawinskij e Auden basato su una serie di quadri di Hogart: Barry Lyndon era la stessa cosa, così come Strawinsky usava le forme chiuse del teatro musicale barocco per far diventare il teatro musicale una galleria d’arte in azione, così Kubrick con le sue inquadrature fisse di Barry Lyndon ci presentava la sua carriera di un libertino in quadri.
Avevo 14 anni.
Caspita!
Canto ineffabile, romanzo di Michela Cervesato

Siamo al terzo romanzo breve di questa scrittrice di cui a questo punto è lecito dire che ha un’identità e uno stile, che potranno interessare più o meno, irritare più o meno, affascinare più o meno, ma che non si possono negare.
Narrazione in prima persona con tratti peculiari: l’io narrante non solo conduce il dipanarsi dei misteri della trama, ma si effonde in pensieri e annotazioni personali con sincerità ma senza nessuna concessione al “flusso di coscienza”. Questa peculiarità è in realtà molto rischiosa, perchè rischia di cadere nel tranello del poco verosimile (chi mai descrive con linguaggio sorvegliato le proprie azioni e le proprie sensazioni se non per estetizzarle? e la narrativa estetizzante non è forse menzognera e lontana dalla realtà?), ma nella prosa di Cervesato diventa tratto dominato da una naturalezza che per la prima volta puó far trovare un’accezione positiva al luogo comune “parla come un libro stampato”: l’io narrante, e così poi tutti i personaggi della narrazione, anche nei loro dialoghi, parlano così, per tratto espressivo autentico e non per posa.
Cultura umanistica che definire profonda è inadeguato, perchè qui si tratta di una cultura respirata come il proprio ossigeno speciale per la propria vita.
Contatto naturale e franco con le cose del mondo quotidiano, senza bisogno nè di intorbidare nè di edulcorare: la vita che viviamo tutti oggi in questo Paese nel quotidiano, semplicemente.
Un umorismo talmente lieve da passare inosservato, se non fosse per il sorprendersi a sorridere mentre si leggono certi passi.
Uno sguardo sul paesaggio, che adesso oltre che circostanziarsi nell’amato Veneto si allarga ad un’amata Roma e ad un amato Circeo, che vengono narrati senza idealizzazioni ma senza alcun tratto tipico, piuttosto in una loro quintessenza (e di quintessenza Cervesato parla ovunque…) che va a confrontarsi con la mitologia, che come sappiamo non è idealizzazione ma simbolizzazione del reale.
La musica: il luogo del miracolo, la sede della guarigione, la casa della pace… nel suo essere totalmente nell’aria, vibrante, dal cosmo all’atomo.
Nel recensire il secondo di questi 3 romanzi brevi mi auguravo che per il terzo Cervesato volesse dedicarsi a quella che mi sembrava essere la sua naturale evoluzione, e cioè un grande romanzo storico: mi sbagliavo, perchè questa scrittrice ha il respiro giusto in questa dimensione, tra il racconto lungo e il romanzo breve, perchè il suo volo è per orizzonti sereni nella leggerezza e senza allontanarsi troppo dal proprio mondo, che peraltro mostra di esser sconfinato grazie alla sua immaginazione.
A chi si rivolge una scrittrice cosí? Temo a pochi: pochi purtroppo hanno una cultura ampia in cui respirare, pochi sanno trarre piacere in ció che dia vero piacere, pochi sanno rinunciare agli eccessi e ai colpi bassi della comunicazione in cui siamo immersi per scuotersi dal quotidiano annichilimento. Nulla in queste pagine puó risuonare se non con chi sappia apprezzare un libro stampato, un libro che ha consapevolezza della storia, un libro che dialoga e respira con tanti altri libri.
A New York, oggi
Anche il linguaggio del corpo tra i duellanti conta:
- virilità evidente quanto naturale di un giovane uomo consapevole di sè versus la pretesa di machismo di un vecchio privo di dignità fissato con la sua capigliatura riportata e le sue pose arroganti
- testa eretta e portata con dignità e spalle aperte ma senza protervia del giovane naturalmente energico versus capo sempre inclinato da una parte e spalle chiuse del vecchio manipolatore
- voce limpida e stentorea del giovane che non nasconde messaggi incoffessabili versus voce sempre artificiale del vecchio che cerca di essere convincente ed energico ma che tradisce tutte le sue strategie di comunicazione artefatte
Mi rendo conto che potrebbe essere presa per un’annotazione basata solo sull’opposizione vecchio-giovane: il punto è nella dignità con cui si porta la propria età, se la dignità viene meno la vecchiaia è pura decadenza e laidezza, se la dignità manca alla giovinezza siamo solo di fronte ad arroganza e presunzione istintiva.
Non potrà mai essere Presidente degli Stati Uniti perchè non è nato negli Stati Uniti, ma potrà aprire la strada a un giusto candidato per competere contro i capelli gialli riportati su un capo reclinato e gli accoliti di quel capo scabroso.
https://youtu.be/nfdUn9H4gjA?si=8Xq15pWr_betgtZU