Andrea Comisso è un avvocato e uno scrittore. La sua espressione fiorisce nel racconto breve. L’ho conosciuto 3 anni fa, andando alla presentazione del suo primo libro presso la Libreria Tarantola di Udine. Siamo presto diventati amici. Questo suo ultimo racconto mi ha toccato specialmente. Andrea entra nell’umano, per intero, con violenza e grazia, e interroga ciascuno che lo legga. Dovevo fare qualcosa per queste emozioni, e ho registrato una lettura.
https://www.facebook.com/share/p/1BLG7mv1TL/
Inchiostro, di Andrea Comisso.
.
Si sta bene qui dentro, con l’aria condizionata.
Mi bacia le guance con slancio. Poggia la borsa sulla sedia, toglie gli occhiali da sole, sfila le infradito. Lascia cadere i jeans.
“Stavolta le cosce” dice.
Si stende sul lettino.
“Vuoi bere qualcosa, Lea?”
“No, grazie. Dopo. Alza un poco la musica!”
Posiziono il led a trenta centimetri, angolo retto. Luce bianca, 5000K
Le cicatrici sono parallele, precise.
“Quando?” chiedo sottovoce, anche se siamo soli.
“Cinque, sei mesi fa” risponde senza guardarmi.
Io ricordo che non c’erano a maggio, invece, e la pelle mi dà ragione: tessuto nuovo, roseo. Consistenza diversa. Queste hanno settimane.
Ma è maggiorenne. Paga in contanti. Firma il consenso.
“Cosa facciamo? Vuoi vedere qualche modello? Invento io?”
“Rami. Come quelli sui polsi, ma che salgono”
Sui polsi ha già i miei rampicanti: sottili, neri, che s’intrecciano sulle vene.
Ma si, era maggio. Mentre disegnavo, pensavo alla fioritura del giardino qui davanti. Faceva caldissimo; era entrata a testa bassa, con le maniche lunghe.
“Voglio coprire” disse. E io avevo disegnato i rami, con cura paterna, senza chiederle niente.
Lei pianse in silenzio, alla fine. Ammirò, disse “grazie” abbracciandomi, e andò via in canottiera, con la camicia raggrumata in borsetta.
Eccoci qui, di nuovo.
Lei distesa, occhi al soffitto. Io che preparo l’armamentario, lavo le mani infilo i guanti, e tento di servire a qualcosa.
“Come va?”, provo.
“Bene”
“Lavoro?”
“Sì”
“Famiglia?”
“Sì”
Non c’è verso. Solo monosillabi, e quel modo di respirare, quando l’ago entra. Come se il dolore la calmasse.
La pelle accoglie l’inchiostro. Seguo le cicatrici, le copro. Una per una. Fioriture che salgono verso l’inguine. Lei non si muove. Respira. Dentro, fuori. Regolare.
“Fa male?”
“No”
Invece so che fa male. Ma, forse, meno delle sue lamette.
In due ore i rami sono perfetti. Tolgo i guanti, mi asciugo la fronte. Non pare che lì sotto ci sia stato uno scempio. Lei si osserva allo specchio, si gira di lato, finge di essere un estraneo che la guardi, e sorride. Ma appena appena.
“È bello” dice. Ma lo dice per farmi piacere, io sento che non gliene frega niente.
“Torna tra qualche giorno, che controlliamo” le raccomando. Anche se non c’è bisogno di controlli. Lo sappiamo tutti e due.
Dondola il capo e produce con la bocca un sorriso sforzato. “Si, passerò”. Mi rassicura, come se soffrissi più io. Ha fretta. Paga. Esce.
Io pulisco gli aghi, butto i guanti, chiudo lo studio, e mi giustifico: starà meglio: adesso può uscire, andare al mare, vivere. Stupido illuso.
.
Sparisce per mesi. Torna in autunno.
Si sfila la maglia. Le braccia sono oscene. Cicatrici fresche, vive. Sotto i rami dei polsi, sopra, ai lati. Ovunque ci fosse pelle libera.
Stavolta non tenta di mentire.
“Ho continuato”
“Lea…”
“Lo so. Ma aiutami, Renzo!”
Ha gli occhi chiari. Le unghie smangiucchiate, e io vorrei portarla via.
“Dovresti parlare con qualcuno”
“Parlo con te”
“Io non sono… Lea: io faccio tatuaggi!”»
“Appunto. Tu copri! Quello che mi serve”
Cosa dico? Che non posso? Che è sbagliato? Ma è adulta. Ha i soldi. Ha firmato. È il mio lavoro.
Disegno altri rami. Più fitti. Lei tiene gli occhi chiusi, ma ogni tanto una lacrima la vedo. Ogni tanto un singulto. Di sollievo? Di dolore? Non so.
Alla fine, ringrazia. Come sempre. Paga. Come sempre.
Io le dico “Torna se hai bisogno”, ma dovrei dire “non voglio vederti più”. Ma glielo dico. E lei annuisce. Sono una brutta persona.
.
Mesi dopo, sto per chiudere. È di nuovo quasi estate. Suona il campanello.
È lei.
“Posso entrare?”
E’ di nuovo troppo caldo per le maniche lunghe. Si siede sul lettino. Ma questa volta è quasi sbruffona, esibizionista. Non parla. Io aspetto.
Si spoglia. Le braccia sono coperte di bende.
“Lea…”
“Sotto i tatuaggi” confessa “Così nessuno vede. Neanche tu”
“Devi andare al pronto soccorso”
“No. Dimmi solo che le coprirai ancora, quando guariranno. Possiamo farlo?”
Non ho parole da dire. Controllo le ferite. Fiori scarlatti sui miei rami secchi. Sangue e inchiostro.
“Non posso più, Lea”
“Perché?”
Perché ti sto aiutando a distruggerti. Perché ogni volta che ti tatuo ti do il permesso di continuare, penso. Ma dico solo “non posso”
Lei annuisce. Si rimette la giacca. Si alza.
“Va bene. Scusa il disturbo. Troverò qualcun altro!”
Esce, e io resto immobile, senza nemmeno tremare, senza niente. Non ho aiutato nessuno, ho solo incassato denaro.
.
Non la vedo più. Passano i mesi. Non torna, non chiama.
Ma una mattina leggo il giornale. “Lea Martini, 23 anni. Si è spenta serenamente circondata dall’affetto dei suoi cari. I funerali si terranno…”
Serenamente.
Affetto dei suoi cari.
Circondata.
Balle. Tutte balle.
Adesso sì che mi tremano le mani.
I miei polsi sono pelle vergine. Niente tatuaggi né cicatrici.
Pago il caffè. Esco. Mi rintano in studio.
Poggio l’avanbraccio sinistro sul lettino, lo cospargo di alcool, appoggio l’ago.
Il dolore è netto, concentrato.
Inizio a disegnare un ramo.
Piccolo.
Sottile.
Nero.