Il periodo deve essere breve

e altri racconti…

l’importante è che il periodo sia breve.
questo è il dictat della scrittura attuale.
il must. no: il dictat!
un periodo come quelli appena precedenti è la misura giusta.
questo quarto periodo è già troppo lungo: PERICOLO!!!!!!!
di cosa?
due parole soltanto messe in opposizione, ciascuna relativa ad un contesto culturale specifico e definito, con verbo sott’inteso. qualcuno potrebbe averne un orgasmo letterario!
cosa si dica è secondario.
periodo perfetto
il congiuntivo però…
cosa si dice è del tutto secondario.
“del tutto” rispetto a cosa? “del tutto” è pericoloso…
I puntini! si certo, citazione dal mondo dei fumetti, cultura pop, gergo condiviso…va bene.
ma in una frase al congiuntivo!
ma per dire cosa?
il vuoto sta bene nel breve.
il vuoto sta benissimo nel lungo, si potrebbe immediatamente controbattere.
il vuoto.
il vuoto e il pieno.
però le mie dita hanno appena battuto “il vuoto e il pegno”: errore sapiente.
lapsus freudiano si dice solo in certi salotti della domenica televisiva.
il pegno.
paghiamo pegno.
non è più permesso descrivere con aggettivazioni ricche.
un aggettivo alla volta è il massimo concesso, purchè sia molto circostanziato.
scrittura molto scientifica.
ogni aggettivo aggiunge e demarca, quindi può essere usato contro la parola.
il che vuol dire che può essere usato contro lo scrittore.
la parola e il suo soggetto.
chissà cosa ne penserebbe Giacomo di Trieste,
il professor Zois.
mi è scappata una virgola al posto del punto: stavo per cominciare una subordinata: PERICOLO!
chissà cosa ne penserebbe Giacomo di Trieste, quel Giacomo che faceva lezione di inglese mettendosi a parlare delle persone che vedeva nei ritratti di famiglia delle signorine di cui faceva il professore privato senza conoscerle.
Senza conoscere le persone dei ritratti di famiglia o le signorine cui faceva lezione di inglese? vedete quanti pericoli???
Si certo, lui pensava intanto al suo romanzo, la folle giornata.
due citazioni colte in mezza riga: PERICOLO!
ma no, questo potrebbe essere sufficientemente elitario ma cool allo stesso tempo.
meglio sarebbe stato se le citazioni avessero riguardato non Ulisse o Le Nozze di Figaro, ma, che so, una striscia apocrifa di Andrea Pazienza e una canzone mai pubblicata degli U2.
anche dalle citazioni si riconosce chi è in e chi è out.
la cultura “alta” è assolutamente out.
il massimo dell’epos oggi citabile è Blade Runner.
I sentimenti vanno bene solo nelle smorfie contraffate di certi momenti di film come “the bad lieutenant” o “Mona Lisa”. Non “Monna Lisa smile”, vi prego!
se poi capita che a uno cui scappano citazioni out piacciano anche luoghi cult del contemporaneo come quelli citati, il pericolo è massimo: ma chi è questo qui???
ma succede anche di pensare.
si, capita ancora.
oggi le frasi devono essere brevi, e che non ci sia più di un aggettivo, assolutamente calibrato.
e che ce ne facciamo di tutto ciò che è stato scritto prima?
quando? cosa? perchè, tu leggi cose pubblicate prima del 1950??? è già una data lontana, come puoi leggere cose ancora più antiche?
infatti oggi si fanno i corsi di scrittura, per imparare ad essere circostanziati e sintetici, e a evitare ogni ridondanza.
in origine chi ballava il tango erano le prostitute e i loro clienti.
anche gli uomini tra loro: chi prendeva il ruolo della donna nel tango mostrava la sua sottomissione mafiosa al superiore che faceva il maschio.
i clienti che ballavano con le prostitute poi insegnavano il tango alle mogli.
le signore dabbene, infatti, potevano ballare il tango solo con i mariti, altrimenti sarebbero state viste come prostitute. I mariti, ovviamente, vanno con le prostitute, e lo fanno solo per poter imparare il tango. E per essere orgogliosi come insegnanti di tango delle loro mogli rispettabili. Ci sarebbe forse qualche altro motivo?
oggi si fanno i corsi di tango e si va a ballare in serate dedicate con grandi ambizioni di eleganza, e di competenza!!!
così sono i tempi.
coloro che danno lezioni di scrittura creativa sono di solito dentro il mercato dell’editoria.
(ma molti no)
hanno imparato sul campo quello che “funziona”.
quello che funziona dipende da tante ragioni.
ci si arrovella per sapere per quale ragione mai Susanna Tamaro sia una scrittrice di successo, e per quale ragione mai i vari “50 sfumature…” siano letti e comprati come noccioline in tutto il mondo.
no, su questi argomenti, nei corsi di scrittura creativa, si pongono domande retoriche.
loro le ragioni le analizzano e le trovano. irridendole, ma le cercano, le analizzano e le trovano.
e poi insegnano, per indicare i metodi della retorica efficace per costruire un racconto, una fiction televisiva, un articolo di giornale…
quel che serve per trovare il successo editoriale seguente resta per loro stessi.
poi, coi loro amici che vogliono scrivere perchè hanno qualcosa da dire, con quelli che leggono ancora per passione anche libri antichi, nonostante tutti i loro errori, come i mariti che insegnano il tango alle mogli, mettono su corsi e seminari, e insegnano loro cose che li guidano a un tango addomesticato e per bene, senza le figure più roventi, e senza lo scandalo della prestazione reale e del pagamento della prestazione vera.
ma Giacomo rideva già di tutto.
parlava in triestino, cambiava casa perchè pagava a stento gli affitti, anche se andava al ristorante e a ubriacarsi in osteria tutti i giorni e a puttane molto spesso, aveva figli selvaggi che urlavano continuamente in dialetto triestino e andavano male a scuola.
si era innamorato di certe sedie in stile danese antico viste in un’illustrazione, e le aveva comprate, anche se aveva già fin troppe sedie a casa. E quasi niente altro.
una casa piene di sedie. a lui solo ne servivano quattro alla volta.
Giacomo descriveva solo azioni. ma talmente precise!!! tutte le infinite azioni rinchiuse in ogni gesto!!!!!! più le infinite azioni lasciate stare nella coscienza mentre un gesto casuale veniva realmento agito!!!!!!!!!!!!!
e sembra quasi che non scrivesse d’altro.
azioni pure.
l’atto.
non così diverso in fondo per Arthur, il sosia spirituale di Sigmund: nella stessa asfittica Vienna, protagonisti entrambi, senza mai incontrarsi!
Arthur descrive così bene, lui che sapeva usare le parole forse come nessuno dopo Johann Wolfgang, l’assenza di parole tra i due amanti borghesi in villeggiatura d’estate, lei incinta, consapevole che al ritorno in città avrebbe ricevuto un assegno e forse, forse, un addio vero, lui consapevole che l’avrebbe abbandonata, miseramente, perchè la sua vita piena di certezze e promesse non poteva essere davvero condivisa e svilita con lei, ma intanto passeggiavano e bevevano sorbetti. O l’assenza di parole tra i due fratelli dopo il funerale del padre, la passeggiata solitaria al Prater, e la loro stretta di mano prima di lasciarsi. O il fiume di parole nella mente di Else nella sua ultima notte dove la negazione rincorre le negazioni e vince…
a Marcel per le sue Madeleins quante parole sono servite?
e per descrivere le sfumature della femminilità di Odette, della Baronessa di Guermantes, delle fanciulle in fiore tra le Tuileries e i giardini del Louxembourg, quella femminilità così misteriosa che poteva essere avvicinata solo con la mediazione di Swann, l’unico modo, per uno come Marcel, per seguire il fascino del femminino fino alla realtà più triviale e svestita di atmosfere aggettivate.
quanti aggettivi!
no no, Marcel è completamente out, oggi!!!
eppure anche lui in fondo parlava solo di una cosa.
chissà cosa gli passava per la testa col suo amante creolo Rheinaldo, il musicista.
ma si che lo sappiamo, è scritto dappertutto nei suoi libri…
l’atto.
Marcel flirta, Giacomo scopa.
come dice Christopher.
che scrive: “flirtation instead of fucking”.
il traduttore di Christopher per Adelphi scrive: “Flirt sta per fottere”.
ho detto tutto.
e non è una frase qualunque, in quel contesto.
a single man. single.

il contesto.
le referenze.
io appartengo a un mondo che ama ancora gli aggettivi, e le subordinate, e le architetture ampie del discorso, ma nello stesso tempo si lascia fulminare dalle frasi brevi.
se sono vere!
cosa è una frase breve?
non è ancora il momento.
abbiate fede, io so dove vado, ho tutto in mente, nessuno pensi che scriva a braccio farneticando: non mi sono fatto, e non sono autorizzato, neanche letterariamente, a farneticare.
alla frase breve perfetta.
e si tratta di una frase che esiste prima di me. anzi, ne sono due.
ma per arrivarci devo fare con voi che leggete un percorso.
mancherebbero due virgole, ma volevo essere cool.
quando Wilhelm scriveva, e i ventenni si suicidavano per amore infelice imitando il suo eroe…altro errore sapiente: quando JOHANN WOLFGANG scriveva: Wilhelm era il protagonista di altri due romanzi di Johann Wolfgang, che avrebbero dovuto essere tre, ma il terzo non era ormai più possibile. Dopo una formazione come quella di Wilhelm, e dopo una maturità come quella di Wilhelm, come poter accontare anche la sua vecchiaia? Johann Wolfgang ha costruito la sua personale vecchiaia senza doverne scrivere. Mentre invece ha scritto delle sue passioni, tutte, con assoluta sincerità, attraverso le migliori mediazioni che lo hanno guidato nella sua olimpica maturità.
quando Johann Wolfgang scriveva, e i ventenni si suicidavano per amore infelice imitando il suo eroe, ciò che scriveva era assolutamente il nuovo. L’ardore che brucia e vibra e mangia la sua stessa vita intrisa di lettere e letture.
il tempo rende tutto distante.
Umberto dice in TV che chi legge era con Renzo e Lucia, era con Ulisse, e leggendo si costruisce un’eternità all’indietro.
Umberto! ha sbaragliato tutti i mercati scrivendo romanzoni storici lunghi, dotti e difficili! davanti a quei successi qualunque editor gabelliere non sa assolutamente dare parametri. Certo, bisogna essere colti! e oggi chi scrive ha solo in matrix reloaded la sua mitologia. Non si può insegnare a scrivere come scrive Umberto in un corso di scrittura creativa. Tocca studiare davvero, per partenza, e poi tocca anche avere genio.
altra parolaccia! resti di preromanticismo!
tranquilli, non cadrò di nuovo in pericolo mettendomi a parlare, che so, di sublime.
sub limene
ma chi mai potrà capirlo?
ci vuole Umberto per far digerire il latinorum e renderlo anche vendibile.
oppure Dan con i suoi finti codici in salsa mistery.
ma se io che amo i periodi lunghi con varie subordinate, le architetture sintattiche, le metafore, gli aggettivi, le digressioni, le descrizioni, io che amo le narrazioni che ora sono destinate solo alle fictions televisive, che infatti hanno imparato il loro stesso messaggio dai romanzoni ottocenteschi messi in sceneggiatura negli anni sessanta, se io che amo le pagine dove le parole dipingevano tutto e non facevano rimpiangere l’assenza di immagine, e dove gli sguardi intensi venivano lungamente narrati dicendo al lettore tutto quel che vi si nascondeva, io che amo tutto questo, e che ne provo così tanta nostalgia da continuare a commuovermi se leggo Johann Wolfgang, o Fedor, o Lev, o Gustav, o Charles; se io che amo questo e tanto altro non mi rassegno all’inattualità e colgo l’assoluta contemporaneità autentica delle madeleins e della folla giornata, mentre colgo la triste vecchiaia delle scuse se mi chiamo amore, perchè in quelle scuse si racconta un mondo incellofanato come i panini sui banchi dei supermercati vicino alle stazioni, che ti sfamano, non ti impegnano, e non ti nutrono, ma in compenso ti ingrassano e ti avvelenano, ma in certi casi non puoi farne a meno, e dunque te li compri e te li trangugi in attesa di un momento in cui cucinarti quella cosa buona che più di tutte ti nutre per intero, per dedicare a questa cosa buona il tempo che ci vuole, a partire dalla scelta degli ingredienti, e dal giusto ritmo di preparazione, e infine alla giusta condizione per gustarla, in solitudine o in compagnia, a seconda dei momenti e dei casi, e in tutto questo andare a ciò che attende di essere di nuovo rivelato sotto il confine dell’evidente più smaccato, e cogliere l’attimo in cui in bocca la rivelazione si manifesta nella sua nuova epifania e il sublime del sapore perfetto viene allo scoperto, come la frase perfetta e subitanea che senza la compagnia di tanta lunghezza e ricchezza di dettagli e di immaginazioni non potrebbe stagliarsi nella sua perfezione, e in questo mette un punto al momento, al tempo, alla storia, e ti rendi conto che la rivelazione ti dà in realtà fastidio, ti mette in scacco, ti mostra come tutti i processi analitici, tutti i dubbi, tutte le digressioni impegnate a capire le ragioni di tutto e di tutti si infrangono in quel che tu stesso, analizzando e mettendo in dubbio, senza neanche accorgerti, hai detto, l’hai detto pur stando attento a tutto, ma ti è scappato, e di fronte all’imponderabile perfezione che si rende evidente tutto si ferma, lì tutto cade, ogni descrizione, ogni aggettivo, ogni metafora, e ogni autolimitazione nel negarli, tutto resta disarmato e, dopo essere stato scomposto, si decompone, e risulta sempre più evidente che non c’è nutrimento senza digestione, e senza le scorie della digestione, che poi fanno schifo e vanno eliminate e ciò che ne è rimasto toccato va nettato a dovere e scaricato insieme a quella merda…
quando arriva la frase perfetta anche il sublime si manifesta come miraggio.
La programmazione del romanzo della vecchiaia, dopo quello della formazione e quello della maturità di Wilhelmn Meister narrati da Johann Wolfgang, che intanto affrontava attraverso Faust il suo rapporto personale col suo stesso demonio, tanto personale e vero da essere il demonio di tutti, quella programmazione viene annullata dall’evidenza di tutto ciò che è stato già detto, e con Giacomo di Trieste la folle giornata può essere scomposta in mille microazioni della coscienza che parla nel suo linguaggio scomposto e che filtra tutto attraverso la trivialità linguistica delle bettole e dei mercati triestini, e con Marcel si può per centinaia di pagine girare intorno al desiderio mentre Cristopher demarca definitivamente in poche parole il territorio del flirtare e dello scopare, e in tutto questo ciascuno si avvicina fin quasi al contatto e sfiora illuminandosi quella frase perfetta che innesca la chiave della storia, breve, assoluta, omnicomprensiva, la frase che risponde al dubbio più profondo e più triviale, che lo mette in scacco, che lo rivela a se stesso, e che ristruttura tutte le proporzioni.
TU LO DICI.
ma avevo detto che le frasi erano due!
manca ancora il soggetto…
la parte del discorso che compie l’azione.
le parole sono le sole azioni reali. il resto è solo conseguenza delle parole, e senza parole a raccontarle, nel ricordo e nell’analisi, senza parole a sbloccare ciò che resta solidificato a chiudere le porte di ulteriori possibilità, le azioni, tutte, ancor più quelle più potenti, non esisterebbero affatto. Senza le parole le lettere sarebbero solo formelle di pasta nella zuppa,quella buchstaben Suppe che nutre tradizionalmente i bambini tedeschi nei mesi invernali, quella stessa zuppa in cui le lettere cercano di aggregarsi per emergere in parole e significati e connessioni nel brodo del nostro inconscio segregato e ribollente. E parlando di parole come del vero alimento della vita, viene da pensare che il posto giusto dei libri sarebbe in cucina, e non negli studioli severi dove i libri allineati non nutrono ma diventano frecce puntate contro il riposo della mente, mentre tra una padellata di verdure, una pagnotta di pane, un bicchiere di vino, uno spiedo infilzato persino la vicenda di Medea potrebbe trovare una diversa prospettiva. E quando poi nelle parole si osasse risalire dal plurale al singolare, ma quel singolare che non nega ma contiene ogni plurale, si potrebbe finalmente accostarsi all’essenza:
IN PRINCIPIO ERA IL VERBO

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