
La distanza che ci separa da Gabriele D’Annunzio sembra a tratti incolmabile: la sua versificazione opulenta e sensuale sembra negare, alla nostra sensibilità contemporanea, ogni possibilità di adesione emotiva, anzi, proprio la spudoratezza della sentimentalitá dannunziana, che si imbeve di invenzioni lessicali e dei piú variegati riferimenti simbolici a spasso nella storia e nei luoghi del mondo centrati nel suo Abruzzo, nella sua Roma e nella sua Versilia, in realtá ci respinge e ci porta a collocare D’Annunzio in un angolo molto delimitato da cui speriamo non debordi troppo.
Nato nel 1863, Gabriele D’Annunzio viene celebrato per i 160 anni dalla nascita. Certamente 160 è cifra tonda ma non tondissima, non è 150 nè 100 nè 200, ma comunque se la celebrazione o la coincidenza porta ad un omaggio quale quello fatto dal Conservatorio “Giuseppe Tartini” di Trieste con il concerto del 17 ottobre alle 20,30, davvero diventa un’occasione di incontro con la sua poesia piú vera.
Paoletta Marrocu e Silvano Zabeo hanno insieme (e raramente questa parola è stata piú fondata) interpretato quattro cicli di romanze di Francesco Paolo Tosti su versi di Gabriele D’Annunzio: Malinconia (1887); Quattro Canzoni di Amaranta (1907); La sera (1916); Consolazione (1916).
Tosti e D’Annunzio sono legati nel Cenacolo ospitato nelle stanze del Convento che Francesco Paolo Michetti aveva acquistato a Francavilla al Mare per farne abitazione e studio e dove tornava appena possibile dai suoi impegni romani come ritrattista ufficiale di Casa Reale. Michetti (1851-1929) deve proprio alle suggestioni del piú giovane D’Annunzio (1863-1938) il soggetto della “Figlia di Iorio”, il suo dipinto piú celebre ispirato a Mila di Codro che scappa velata di rosso, protagonista della tragedia di D’Annunzio su temi arcaici legati alla grande montagna-madre, la Majella.
Tosti (1846-1916), il piú anziano del cenacolo e quello dal carattere piú posato, era un cantante e pianista di Ortona a Mare che trovò fama e successo partendo come maestro di musica delle figlie della Regina Vittoria ma presto assurgendo alle funzioni di vero e proprio direttore artistico di tutte le attivitá musicali alla Corte Reale d’Inghilterra. Il giovane e scapestrato Gabriele era tenuto un po’ sotto paterna tutela da Tosti, che spesso lo soccorse a pagarne qualche debito di troppo, o di tasca propria o procurandogli qualche contratto per scrivere i versi di qualche romanza da pubblicare con certezza di successo editoriale internazionale tra Europa e America.
Tosti ha declinato in un modo specifico la forma della romanza da salotto, facendo incontrare una relativa facilità esecutiva, abbordabile dal mondo del dilettantismo musicale, con una raffinatezza armonica evocativa e una espansione melodica “italiana” estremamente espressiva e sempre elegante.
Quando, anziano, Tosti vuole uscire dal suo stesso fortunato stilema di successo, e, senza rinnegare se stesso, vuole scrivere qualcosa che possa trovare una pregnanza maggiore, torna ai versi dell’ormai famosissimo Gabriele, il piú europeo dei nostri poeti, che era stato interpellato addirittura da Claude Debussy per la stesura in francese arcaico (!) del testo del “Martyre de Saint Sébastien” (1911).
Tra Pescara (D’Annunzio), Francavilla (Michetti) e Ortona (Tosti), una dietro l’altra in 20 km di costa abruzzese, si concentra il sodalizio di tre degli artisti piú internazionali (poesia, pittura e musica) che l’Italia abbia avuto tra ottocento e novecento.
Nei primi due cicli del programma, è una donna che parla: in Malinconia una delle tante innamorate tristi che si inanellano nell’estetica tardo-romantica, che qui Tosti tratta con speciale intimità, ma in fondo senza enormi differenze da quanto avviene nelle altre romanze sciolte che già scrive copiosamente.
Venti anni dopo, il suo capolavoro assoluto, con Amaranta, dietro cui si cela Giusini, a sua volta nomignolo della giovane contessina fiorentina pia e timorata di Dio che, dopo un assedio lungo ed estenuante di un famelico D’Annunzio, ha ceduto alle lusinghe delle sue offerte amorose per caderne irrimediabilmente travolta e privata di equilibrio interiore fino alla sofferenza psichiatrica. In questi versi D’annunzio entra nella psiche da lui stesso violata di Giusini-Amaranta, e ne esprime non solo un ovvio disagio, ma un mondo oscuro di simboli mortuari legati al pensiero del suicidio cosmico (“L’asfodelo è il fior del mondo”) cui non solo l’amante infelice sente di dover cedere, ma l’umanità intera, interrotto da un’ “Alba che separa dalla luce l’ombra” che, dimenticati i tenorismi cui siamo purtroppo abituati dai tempi di Caruso che ne fece, rubando, cavallo di battaglia, porta in un’estasi amorosa tutta femminile, sospesa e già piena di tragedia, simile al “sein Kuss” dove culmina e si spezza il canto di “Gretchen am Spinnrade” di Schubert.
Quante volte Tosti ha cantato il sogno? Chi non ricorda la romanza che, appunto, “Sogno” si intitola? Ma quando Amaranta-Giusini dice a se stessa “tutto è sogno, tutto è oblio”, nel suo mondo, che si apre al nostro ascolto indiscreto a violarne l’intimitá, risulta evidente e palpitante la risonanza con lo Zeitgeist, che in quegli anni ha appena espresso la pubblicazione dell’ ” Interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud e la nascita della psicoanalisi, e che vede la nascita delle opere teatrali di Hofmansthal (con cui D’Annunzio ebbe una rivalità-affinità letteraria) e Strauss (col quale ebbe un carteggio).
Il punto, quando tutto questo diventa concerto, è che tutto possa essere vero. In apertura Paoletta Marrocu ha detto con amabile franchezza che ringraziava il nutrito pubblico convenuto per la sua presenza, ma che lei e il suo sodale Silvano Zabeo avrebbero comunque fatto il concerto anche in assenza di pubblico, per intimo coinvolgimento. E infatti, da questo preambolo si è poi aperto un mondo di parole e suoni che palpitava di verità emotiva. La distanza da questo mondo di cui parlavo all’inizio è stata non solo colmata, ma dissolta nella compenetrazione tra la voce di Marrocu e ogni parola, ogni sillaba, ogni intonazione, ogni respiro, e nella compartecipazione di Zabeo che ha permesso al suo pianoforte di fare la stessa ricerca con la scarna materia del tocco dei polpastrelli sui tasti. Insieme hanno cantato l’inconscio di Amaranta-Giusini, e il concerto si è ricordato di esser tale solo quando sono scrosciati gli applausi, grati.
Poi, i due cicli dell’ultimo anno di vita di Tosti, il 1916, “La sera” e “Consolazione”.
Chi parla è ora Gabriele stesso, che alla madre si rivolge, madre vecchia e stanca, cui, dopo un’introduzione pianistica indipendente, si rivolge sussurrando con deferente pudore “Rimanete”, che significa “Non morire, mamma!”, e di cui protegge gli occhi stanchi dal dardo della luce, per poi cedere al proprio dolore di figlio che, in ogni età, al morire della propria madre si sente abbandonato e orfano, e che di questo esprime il proprio dolore con la forza dell’uomo che è diventato.
A proposito dell’interpretazione de “La sera”, non posso non dire che qualcosa di piú personale emergeva dal pianoforte di Zabeo, che in quelle poche note scritte ha permesso a qualcosa di molto profondo di venir a vibrare nell’aria, e che alle mie orecchie e al mio immaginario è arrivato.
In “Consolazione” il dolore per la perdita dell’anziana madre si stempera nell’elegia, diventa addirittura capace di cantare una sorta di danza popolare abruzzese, pare che dopo aver espresso lo sconcerto e il dolore veri nel ciclo precedente, qui Tosti rientri nella sua autoconsapevolezza di uomo ben adulto, anziano, e, sa bene, vicino alla propria, di morte. Il tutto, attraverso la voce femminile… infatti, pure Dichterliebe lo cantano anche le donne: è poesia.
Tra lutto ed elegia, Marrocu e Zabeo ci hanno fatto volare con loro in un mondo dove l’immaginifico D’Annunzio aveva già annegato la propria funambolia retorica in una ricerca di verità emotiva che non gli riconosciamo facilmente, e dove il Tosti migliore ha saputo abbandonare ogni compiacimento salottiero.
Al momento del bis, Marrocu ha chiesto “volete “A Vucchella” o i “Due piccoli notturni”?”. E qualcuno nel pubblico ha chiesto senza dubbio “Notturni!”.
Intanto: la sincera coerenza artistica, pur in bis, di proporre entrambi i due Notturni, e non uno solo, e poi, generosamente, anche la celebre canzone in una lingua napoletana-dannunziana reinventata. “Van gli effluvi de le rose dai verzieri… Lungi, e le meteore”… come rinunciarvi?
In conclusione: un concerto in cui D’Annunzio è poeta di sincerità e Tosti dialoga con i grandi compositori di cicli di canzoni, gli amati Schubert e Schumann. Lo potevate immaginare?
Non dico neanche una parola specifica su Marrocu come cantante: non è un caso. Ho detto che il concerto l’hanno fatto INSIEME Marrocu e Zabeo. Però, si sa, qualcosa della cantante si DEVE dire!
Va bene.
Ha cantato con la classe dei pochissimi che possono dimenticarsi del gesto del cantare stesso, e il pubblico ha sentito una voce bellissima dimentica di se stessa e fatta poesia.
Alessandro Tenaglia