Otium e necessità

Non esiste una sola definizione di cosa sia letteratura e cosa non lo sia.

Per me, la letteratura si divide in due macro-famiglie: quella dei frutti dell’otium, inteso nel senso piú nobile, altrimenti non ne parliamo neppure; e quella dei frutti della necessità, anche qui intesa nel senso piú nobile, escludendo, per intendersi, la necessità di far qualche guadagno dalle vendite.

Gli intellettuali che possono permettersi di inventare castelli narrativi per il puro piacere di farlo, se poi lo sanno fare, producono una letteratura sicuramente pregevole e affascinante, che su di me non ha attrito, mi scivola addosso senza lasciarmi nulla, almeno finchè non si incaglia, magari involontariamente, in un anfratto in cui, mentre leggo, ho la sensazione che lo scrittore mi stia davvero dicendo qualcosa che aveva necessità di dire anche a me che gli sono del tutto estraneo.

Peraltro, ci sono molti scritti che restano invischiati nella necessità di un tema importante che va affrontato, va raccontato, ma non sanno trovare le parole, le forme, le libertá di chi prova e riprova strenuamente a dire meglio, e quindi si resta in forme di espressione che non sanno parlare a me che sono un completo estraneo, non sanno costruire ponti, nei casi migliori possono ambire alla dimensione del reportage giornalistico, anche se troppo inquinato da personalismi, o piú comunemente restano in un ambito diaristico che dovrebbe restare privato.

Summa summarum, lo scrittore della necessità ha bisogno della disciplina e del distacco dell’otium, lo scrittore dell’otium ha bisogno di sporcarsi nella vita e nel suo fango per trovare qualcosa che resti attaccato alla mente e al cuore del lettore.

Ed ora che ho dato la mia lezioncina non richiesta, posso tornare a fare quel che stavo facendo.

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