Decenni, ormai, in cui scrivere e narrare deve voler dire prioritariamente, se non esclusivamente, elaborare stili consapevolmente retorici e intrecci insoluti e modalità tra il delirio e l’iperrealismo (che vengono a toccarsi) con contenuti completamente relativizzati in un orizzonte sostanzialmente indifferenziato ma centrato sul proprio ombelico.
In questo quadro, possono nascere quelli si chiamano pomposamente romanzi-mondo, narrazioni fantastiche per le quali gli effetti degli acidi sono sogni infantili, crudeltà efferate e storie di sesso “la qualunque”, e soprattutto si afferma il gioco di società che definisce l’appartenenza alla tribú: le citazioni e il loro riconoscimento. Se citi Blade Runner sei in, se citi Goethe sei out. Ma che dico Goethe: anche citare Pirandello è out, o Vittorini, mentre Calvino vince su tutti.
Baricco dice in un’intervista che torna dopo tanti anni a dedicarsi al romanzo per il gesto di scrivere in se’. Una docente di scrittura creativa in crisi davanti alla pagina mentre riflette sul vizio di scrivere che non riesce a togliersi e sulle infinite possibili modalità di scriverne.
Nell’infinita discussione tra autobiografismi, autofiction, memoriale … una letteratura vuota e macabra che gioca imbastendo cene cupe con cadaveri, ma con molta intelligenza e perizia e grandi slanci visionari senza peyote (o con?), e uno spolvero di politically correct per ripulire la coscienza.
Scrittori che scrivano perchè hanno qualcosa da dire e che si impegnino a farlo col massimo della dedizione per riuscirci: pochi, pochissimi.
Poi uno legge Thomas Mann e Schnitzler e Flaubert e Verga …